| Il silenzio. C'è un silenzio speciale che ci avvolge tutti, in questi giorni. Di parole, di atti, quasi nei movimenti. E' come se la cautela e la prudenza si traducessero automaticamente in una rarefazione del suono. Tutto si è ovattato. Camminare a piedi per Milano è un'esperienza straniante. Molti negozi sono chiusi con qualche cartello di sommaria spiegazione, altri - la maggioranza - desolatamente vuoti. Il traffico è ridotto al minimo. Silenzio. Per chi, come me, come noi, vive il basket come una passione che trasmette felicità ed appagamento, lo sport si traduce invece in movimento, in suono, in rumore. Parecchio tempo fa scrissi una nota che intitolai "I rumori del basket", perché io credo che il basket esprima una fascinazione tutta sua proprio nei suoi rumori identificativi, che sono diversi e che danno a questo sport un'identità speciale, molto precisa. Lo stridìo delle suole sui parquet, la sirena, il fischio dell'arbitro, il tu-tum del palleggio, il flosh! morbido della retina, e tanti altri ancora... In questi giorni, tutti questi rumori sono stati azzerati per una giusta e doverosa cautela, ma ciò su cui mi sono trovato ad interrogarmi è stato proprio sulla conseguenze di quell'azzeramento. Su questo silenzio che ci avvolge tutti come una nebbia e che sembra togliere peso ad ogni parola, ad ogni rumore. Io vorrei invece per un attimo restituirvene almeno uno. Provate ad immaginare il campo di gioco di vostro figlio. La sua palestra, il suo palazzetto. E' tutto chiuso, semibuio, le porte sprangate. Ma un ragazzo è riuscito ad intrufolarsi da una porta secondaria che conosce soltanto lui, è vostro figlio. E' già da qualche giorno che non può allenarsi, non può giocare, e la sua passione per questo sport è tale che gli prudono le mani, gli prude la pelle, sente le ossa che gli formicolano dal desiderio di correre e tirare di nuovo. Va a prendere un pallone nell'attrezzeria, ne prova un altro, lo fa rimbalzare finché non trova quello giusto. E da lì, palleggiando piano, si dirige verso il centro del campo. Nel palazzetto in penombra rimbomba un solo rumore, è il tu-tum tu-tum ritmato del suo palleggio. E gli viene da sorridere, perché in quel rumore riconosce se stesso e la sua stessa anima di giocatore. Riconosce gli anni del minibasket, riconosce i suoi compagni, la sua squadra, il suo coach, le infinite trasferte accompagnato ovunque dai suoi genitori. Riconosce il dolore di sconfitte cocenti che lo hanno fatto piangere di rabbia e di dolore e la gioia forsennata per certe vittorie incredibili. Tu-tum, tu-tum. Nel palazzetto c'è solo lui. Che palleggia piano, come se avesse paura di far male a qualcuno, come se fosse consapevole che in quella solitudine un po' galeotta e da furfante ci fosse qualcosa da preservare con cura, come un sentimento. Tu-tum, tu-tum. Prova il primo tiro, e non prende neanche il ferro. Va a riacchiappare la palla e riprova dall'angolo, poi si sposta sotto canestro, poi torna al centro. E tira e palleggia, cerca di assumere un proprio ritmo in quel silenzio innaturale. Tira e palleggia, corre ad acciuffare il rimbalzo e prova di nuovo. Cambia posizione, scarta, corre, va in terzo tempo, schiaccia. Suda. Sente il proprio respiro, le gambe che gli rispondono, le mani e le dita che lo assecondano. In quel palcoscenico tutto suo costruito nel silenzio e nella penombra sente che sta rendendo onore alla gioia della sua vita e della sua adolescenza, alla sua memoria di bambino, ai suoi genitori, ma più di ogni altra cosa alla sua passione. Sente che quel silenzio è violabile dalla gioia del gesto tecnico, dall'essere se stesso, un giocatore, su un campo che sente profondamente suo. Tu-tum, tu-tu-tum. Riprende a palleggiare piano piano. Non c'è competizione, non c'è né vittoria né sconfitta. Nessuno che lo osservi. C'è solo lui, con il suo campo, il suo canestro, il suo pallone. Io sono solo nascosto in un angolo dal quale non può vedermi, nessuno può farlo, perché a me basta sentire quel rumore per capire che il silenzio è solo temporaneo, che è destinato ad essere sconfitto, perché il silenzio in definitiva significa soltanto una cosa: assenza. E ci sono ragazzi, e uomini, e donne, che non possono tollerare troppo a lungo l'assenza. Per loro, la mortificazione dell'assenza, il senso di vuoto, sono avversari che si possono battere. Con un pallone. Tu-tum, tu-tum. Io guardo vostro figlio nascosto nel buio e sorrido come sorride lui. Non so chi sia, ma per favore, se stasera dovesse raccontarvi ciò che ha fatto, arruffategli i capelli e dategli un abbraccio un po' anche da parte mia.
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