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Le scarpe della felicità



Sabato scorso, la squadra del Prato doveva affrontare nella palestra di Terranova Bracciolini i pari età del Lucca, nella partita che valeva l’accesso alla finale contro Biella, nel torneo organizzato dalla società Montevarchi.
Tutti sanno che la società aretina, con il suo anfitrione Scheggia è l’incomparabile vanto della pallacanestro toscana: ma quel giorno peccò di disorganizzazione , come di chi non ama l’odioso lavoro di coordinare un evento. Poco male.

La mancanza di un arbitro, di volontari al tavolo, di personale all’interno del bell’impianto di Terranova, che ci spiegasse come far funzionare le apparecchiature elettroniche, introducevano una piacevole nota di disordine nell’ordine eccessivo dell’organizzazione montevarchina.
Quando tutto sembrava ormai compromesso, arriva trafelata mia moglie che mi consegna una busta di plastica con dentro un paio di pantaloni felpati di color grigio e un paio di scarpe da ginnastica nr. 46: Erano le scarpe di Scheggia.
Indossare gli indumenti , ma soprattutto le scarpe di Scheggia più grandi di due numeri, è una di quelle cose che nella vita non mi capiterà mai più , pensavo. Non ha prezzo.
E felice come un bimbo che ha appena ricevuto in dono una playstation, viene deciso che sarei stato io, genitore di una ragazzo che gioca nelle fila del Prato, l’arbitro designato a dirigere l’importante partita che valeva la finale del giorno dopo.
Un brivido attraversò gli almeno cento spettatori presenti in tribuna, tranne i fantastici genitori lucchesi e pratesi che occupavano invece l’improvvisata postazione al tavolo, come ufficiali di campo e che non avevano la più pallida idea di come funzionassero le apparecchiature. La situazione era (per così dire) drammatica: nell’impianto abbandonato a noi stessi, ho avuto la fortuna di trovare questi piccoli (tranne quello di Lcca che era grande e grosso) , umili, lisi, grandi genitori, terrorizzati dalla grandiosità delle loro incombenze e dalla fuga degli organizzatori.

Sono stati gentilissimi e disponibilissimi con me, che sarei stato anche il loro direttore. Se nessuno di noi fosse stato disponibile, nessun Dio avrebbe condotto la gara alla sua naturale conclusione, i tifosi assiepati in tribuna avevano capito quello che i geniali organizzatori invece non avevano compreso, e la partita iniziò veemente nel silenzio generale delle due tifoserie.
E’ strano come gli Italiani, questo popolo di chiassosi mestatori, che hanno prodotto Masaniello, Mussolini, Umberto Bossi e Beppe Grillo, siano cosi miti, nonostante la presenza in campo di un arbitro dichiaratamente di parte, con uno spaventoso conflitto d’interessi.
Mentre altri tifosi, vedi i montevarchini stessi, sarebbero stati dilaniati dal furore, i nostri tifosi erano tranquilli, affabili, non protestavano, non alzavano la voce, non dileggiavano l’arbitro con le scarpe più grandi di due numeri e con la tuta XXXl di Scheggia: avevano imparato che l’unica arte certa della vita è la sopportazione: infinita, infinita sopportazione.

Non importa che Dio, la realtà, gli uomini politici, i banchieri, gli industriali ci infliggano ogni instante inconcepibili vessazioni. Ci mancavano anche quelle degli organizzatori del torneo. Bisognava tacere, perché non c’è niente da fare.
Intanto la partita continuava combattuta come da copione. A un certo punto, va via anche la luce, con l’urlo dell’umile cronometrista lucchese che mi informa che il tabellone è spento. Tranne gli addetti al tavolo, l’intero palazzetto scoppia in una grandiosa risata: tutti erano curiosi di sapere dove fosse il quadro elettrico, per ripristinare il servizio. Mentre il gruppo di noi ufficiali aspettavamo di prendere una decisione, i tifosi sugli spalti erano senza parole, incapaci di partecipare anche loro, col cuore pieno di nostalgia per i loro colori, e per quello strano pomeriggio.
Alla fine, con l’ausilio di un tifoso-elettricista si trova l’impianto e la partita riprende, ma non aveva ritrovato la bella fiducia e l’alacrità di prima, come se la sventura di quello che stava accadendo avesse ferito al cuore i ragazzi in campo.

Ho dimenticato la cosa più importante. I ragazzi in campo, che si sono subito accorti di quel disservizio, non hanno mai aggiunto nè in campo nè fuori, un ombra alla loro fronte luminosa.
Senza mai cessare per un istante di correre, parlare, lottare, attaccare e difendere, come se una profondissima sorgente di gioia, che nemmeno loro conoscevano si annidasse nel loro cuore e non potesse fare a meno di riempire il triste contorno.

Alla fine tutte le persone, applaudirono , i perdenti non protestarono e tutti i ragazzi sorrisero di quel fiore di giovinezza.

Così , ho avuto la fortuna di essere stato insieme a loro in campo, indossando le scarpe della felicità.....

Quelle di Scheggia: due numeri più grandi.

FIGLINE batte in finale SYNERGY in una partita non bella, ma corretta e in grande equilibrio fino alla fine.
Un grande applauso ai ragazzi figlinesi, e complimenti anche alla squadra sangiovannese per il campionato fatto.