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Anni di piombo, cuori neri e cuori rossi

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micio000
view post Posted on 22/9/2009, 10:36 by: micio000




da Corriere.it

«Terrorismo, non dia lezioni chi ha ucciso»
Le parole di Montezemolo. Caselli: un errore dare a Segio il volto di Scamarcio


MILANO — Anni Settanta. Le Brigate rosse, la stagione del sangue, i reclutamenti in fabbrica... Sul finire di quel decennio Carlo Callieri era capo del personale alla Fiat Auto. E ne ha conosciute di vedove, madri, padri e figli dei caduti sul fronte dell’eversione rossa. Troppi. Anche (ma non solo) per questo ha sempre trovato «inaccettabile », «vergognoso», «pericoloso » che ex terroristi siano «diventati maestri di vita». Vederli dare lezioni, tenere conferenze, partecipare a dibattiti, oppure sapere che la loro esperienza è diventata un film, un libro, una fiction, un documentario o è arrivata in teatro... «beh, è uno sberleffo in faccia alla decenza e alla civiltà». I parenti delle vittime, loro sì, possono avere il palcoscenico e cercare da lì di ristabilire pezzi di verità. Questo sostiene Callieri (da sempre e, ieri, in una sua intervista a La Stampa ). Ed è categorico: «Quelli sono delinquenti, assassini o complici di assassini. Hanno causato lutti, fermato lo sviluppo di un Paese e seminato semi velenosi. Devono solo tacere e vivere nel rimorso fino alla fine dei loro giorni». Pericoloso abbassare la guardia. «Tutta quest’opera di ricostruzione intellettuale fa sì che non ci sia più paura», considera Callieri. «Ma se ci penso seriamente capisco che io oggi, per quello che sto dicendo, penso di poter correre dei rischi e so che di uno come D’Avanzo (brigatista in carcere, ndr ) avrei paura».

Delle tante trasmissioni, interviste, documentari sugli anni di piombo e sui loro protagonisti Callieri salva «La storia siamo noi» di Giovanni Minoli e la recente ricostruzione della storia di Walter Tobagi di Antonello Piroso, su La7. «Noi abbiamo raccontato tutto partendo e attraversando le storie delle vittime, non quelle degli assassini» valuta Minoli. «Non è difficile. È che per farlo si deve lavorare in profondità e senza pregiudizi ideologici ».

Sabina Rossa (deputato Pd) è la figlia di Guido Rossa, sindacalista ucciso nel 1979. Su una cosa è «del tutto d’accordo» con Callieri: che gli ex brigatisti «non si esibiscano senza un contraddittorio ». Mentre trova «utili i film e le rappresentazioni di quella stagione, perché i giovani soprattutto hanno voglia di conoscerla». Lo dice avendo apprezzato «Guido che sfidò le Brigate Rosse», film di Giuseppe Ferrara su suo padre.

Andrea Casalegno, figlio di Carlo (il primo giornalista ucciso dai terroristi rossi) sostiene che «non esiste la categoria degli ex assassini». Un assassino è per sempre. «Fino a qualche tempo fa erano i terroristi a parlare. Diciamo che però era molto sbagliato, moralmente. E la tendenza l’ha invertita il libro di Mario Calabresi (Spingendo la notte più in là, ndr ). Finalmente la parola è tornata ai figli delle vittime». Casalegno è d’accordo con Callieri: inaccettabile «un assassino che pontifica ed espone tesi autogiustificatorie e false». Rischioso. Allo stesso modo, per dirla con le parole del procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, «è un rischio far interpretare a un giovanotto idolo delle ragazzine (Scamarcio :sick: :sick: , ndr) il film su Sergio Segio (ex terrorista, ndr ) perché si rischia di mitizzare comunque il personaggio. Io ho sempre fatto una battuta: è vero che la pena deve tendere alla rieducazione ma non c’è scritto da nessuna parte che gli ex terroristi debbano tendere alla nostra rieducazione».

Il professore e giurista Pietro Ichino commenta con amarezza che «nella società mediatica purtroppo il solo fatto della notorietà dà titolo al palcoscenico, anche quando quella notorietà è costruita sul crimine». Palco che «un Paese non deve permettere a chi si è macchiato di delitti così efferati» dice il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo ricordando a Torino Carlo Ghiglieno ucciso trenta anni fa da Prima Linea.


Giusi Fasano


Lo studente morto per caso
che nessuno ricorda più
La storia di Emanuele Iurilli
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«Terrorismo, non dia lezioni chi ha ucciso» (22 settembre 2009) Una pallottola 7.62, sparata da una mitraglietta di fabbricazione sovietica. Venerdì 9 marzo 1979, una giornata senza sole, attorno alle 13.40, una pallottola, una sola, trapassò il braccio destro e il torace di Emanuele Iurilli, perforandogli il polmone e sfiorandogli il cuore. Torino, via Millio, periferia operaia di Borgo San Paolo, un rettangolo stipato di palazzi con 40 mila abitanti. Emanuele avrebbe compiuto 19 anni in maggio, quel giorno stava rientrando per pranzo dal Settimo Istituto Tecnico Aeronautico dove studiava e a una decina di metri dal portone di casa finì casualmente in un’imboscata tesa ai poliziotti da Prima Linea. Pochi ricordano ancora questa vittima innocente del terrorismo, la madre di Emanuele è morta un paio d’anni fa e suo padre poco dopo. La memoria rimane appesa alle parole del suo miglior amico, il cugino Michelangelo, con cui Emanuele passava i pomeriggi a costruire modellini di auto e di aerei: «La nostra passione» (la camera di Emanuele era zeppa di piccoli Jumbo, F 104, G 91). Perché spesso i caduti per caso, conclusi i funerali di Stato, rimangono in una foto tessera con didascalia e senza storia. Si dimentica, eccome.

La fine di Emanuele cominciò una settimana prima, ma nessuno poteva immaginarlo, perché Emanuele era uno studente come tanti («migliore degli altri», dice oggi suo cugino), figlio di Alfredo, un operaio della Fiat emigrato al Nord come carrozziere nel dopoguerra da Spinazzola, Bari, e di Elvira Almasso, insegnante elementare, piemontese delle Langhe, dove da bambina aveva visto da vicino la Resistenza. Forse per questo aveva consigliato a suo figlio di leggere Fenoglio e Il partigiano Johnny è rimasto il libro preferito di Emanuele, il romanzo su cui avrebbe voluto fare una relazione (oggi si dice tesina) per la maturità. In quei giorni di fuoco, Prima Linea deve (deve?) vendicare due «compagni» uccisi dalla polizia in via Veronese, altra periferia, non troppo lontana. Il commando decide che l’agguato avverrà in una bottiglieria, di fianco al palazzo in cui vivono famiglie modeste, come in tutto il quartiere, famiglie che non c’entrano niente e pensano solo a lavorare in fabbrica e a tirar su i figli.

I terroristi sono sette, arrivano su una 131 verde, su una 124 familiare e forse su una Volkswagen. Alcuni di loro entrano nel bar (si troveranno poi un paio di vassoi di pasticcini abbandonati sul cofano di una vettura, per strada) e minacciano un paio di ostaggi, altri rimangono in auto. All’arrivo dei poliziotti, chiamati al telefono per un falso ritrovamento di macchine rubate, si apre il fuoco, saltano vetrine e rimbalzano colpi sulla strada. L’appuntato Gaetano D’Angiullo viene ferito alle gambe. È proprio in quel momento che Emanuele gira l’angolo, avanza da dietro una Fulvia in sosta per raggiungere casa sua, come ogni giorno, stringendo in una mano la sua cartella di plastica nera piena di quaderni e libri (tra cui Il partigiano Johnny ). Deve aver sentito la voce di qualcuno che gli urla di gettarsi per terra, deve aver tentato di fare un balzo in avanti per rifugiarsi tra due auto, ma nel volo viene colpito da una sola pallottola e precipita sulla strada. Mamma Elvira si affaccia al balcone per capire che cos’è quel frastuono, giusto in tempo per vedere suo figlio accasciato: «Quante volte — ricorda ora Michelangelo — mia zia ha raccontato quegli attimi: non sapeva dire se aveva fatto le scale o aveva preso l’ascensore, ma in un attimo raggiunse Emanuele, salì con lui sull’ambulanza e lo accompagnò senza speranze alle Molinette». Quattro anni dopo, il 28 settembre ’83, durante la ricostruzione di quell’omicidio nell’aula speciale delle Vallette, la madre di Emanuele aveva già i capelli bianchi e singhiozzava nel rievocare la sua tragedia, mentre i terroristi dietro le sbarre leggevano i giornali spalle alla corte e chiacchieravano con i parenti. Solo Marco Donat Cattin — raccontano le cronache giudiziarie — si alzò di scatto coprendosi il volto con una mano, forse per un tardivo moto di compassione. «Emanuele — dice il suo cugino preferito — avrebbe voluto diventare ingegnere aeronautico, sognava di volare».


Paolo Di Stefano




Chi voglia dare un contributo od una testimonianza su quegli anni è ben accetto





 
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14 replies since 22/9/2009, 10:36   320 views
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